03/05/20

L'occasione


L’assemblea di Lega ha sancito, all’unanimità, che il campionato dev’essere portato a termine.
Anche a condizione di sfiduciare il governo. E che le pay-tv non si illudano di poter rinegoziare i parametri della terza rata. A costo di raccattare in strada dei senza fissa dimora sacrificabili, deportarli in uno spogliatoio, costringerli ad indossare le divise ufficiali e inscenare delle partite in un campo di detenzione, a uso e consumo delle televisioni e dei bilanci societari.
Ho sempre pensato che il segreto della passione calcistica sia nell’ostinazione.
Ho sempre ritenuto, altresì, che per continuare a seguire il calcio così com’è si debba conservare a viva forza un cuore infantile e far finta di non sapere che Babbo Natale non esiste.
Perché sappiamo di quale immondo mercato stiamo parlando, in realtà, ogni volta che ci prepariamo ad affrontare una stagione. Sappiamo d’esser stati tramutati in stupidi clienti senza raziocinio. E che i padroni del nostro immaginario ci ritengono capaci di qualsiasi colpo di testa, di qualunque contraddizione, pur di non perdere l’hobby del pallone. 
Abbiamo sempre pensato che il calcio così com’è – zeppo di figure inquietanti e sporche al punto che nessuno vorrebbe frequentarle altrove – si sviluppasse su un universo parallelo.
Che fosse una sorta di videogame. Perché in nessun altro ambito ci sono poveracci con prole che si indebitano per vedere dei ragazzini milionari tirare calci ad un pallone.
Ma il coronavirus – tra le tante conseguenze sulla vita reale – ci ha dato l’esatta contezza della distanza approssimativa che passa tra le nostre infantili passioni mantenute per ostinazione e i freddi, spietati numeri che regolamentano l’agire della cupola di questo gioco che un tempo fu il palcoscenico dei ferrovieri, la valvola di sfogo dei lavoratori, il sogno di protagonismo del mondo di sotto. Insomma, sapevamo che – per quante Partite del cuore possano disputare, per quanta beneficienza sbandierino – stavamo parlando di un altro mondo. Ma non immaginavamo che fosse così distante dalle tribolazioni della gente semplice che gonfia il business.

Sono fermi da due mesi. Più o meno. Sono due mesi che non giocano e che i palinsesti delle agenzie non presentano eventi su cui scommettere. E la verità è che non interessa a nessuno. Che da due mesi nessuno fa storie, nessuno avverte come imprescindibile il ritorno in campo di questa gente. Anzi. Un’ondata di schifo assai simile alla nausea si è levata quando – già tempo fa – le società calcistiche provano ad ipotizzare l’ammontare delle loro perdite. E battere a denaro. Ma adesso, sul serio, siamo ad un passo dal vaffanculo. Perché non c’è bisogno di riepilogare qui il lungo computo dei morti, dei dolori non rimarginabili, degli orrori rimbalzati tra le corsie degli ospedali e delle case di riposo. Non c’è bisogno di impressionare l’uditorio con le raggelanti storie degli infermieri lasciati a combattere l’epidemia senza i mezzi necessari, dei congiunti cremati prima di ricevere una visita parenti, dei detenuti uccisi nelle rivolte dettate dalla paura di un contagio senza vie di fuga, dei lavoratori costretti a scegliere tra la salute e la fame. Non c’è bisogno di tutto ciò per liquidare con sdegno le pretese di normalizzazione di presidenti, procuratori e faccendieri legati ad un calcio che non ci somiglia più da decenni, ma che se possedesse maggiore furbizia eviterebbe, di farcelo notare con tale brutale franchezza.
Perché – checché ne dicano i detrattori, i critici e gli intellettuali – non siamo dei consumatori così stupidi. Abbiamo accettato – è vero – il compromesso a perdere con un gioco bellissimo trasformato, sotto i nostri occhi, in uno spettacolo così così. Abbiamo ingoiato, salvo eccezioni così rare da risultare ininfluenti, restrizioni e obblighi che farebbero rabbrividire i propugnatori delle libertà individuali. Abbiamo subito la declassazione: da protagonisti insostituibili di una contesa che esiste perché esistiamo noi a majorette addomesticate, utili solo per fare contorno, buone per colorare gli spazi vuoti della telecamera. Lo abbiamo fatto – ripeto – perché volevamo tenerci stretto un giocattolo che ci appartiene, che apparteneva alle domeniche dei nostri nonni e pensavamo di dover trasmettere ai nostri figli. Lo abbiamo fatto perché il nostro cuore è rimasto dodicenne. E non conosce tante malizie. O, se le conosce, finge indifferenza. Vorremmo che il calcio tornasse a somigliare a quello che ci fece innamorare. Sappiamo che non succederà, ma insistiamo. Per puntiglio. Perché non devono vincerla le facce di merda.

Ma adesso l’occasione è sottomano. E sarebbe un peccato perderla per indolenza, per abitudine al peggio, per fatalismo e scoramento. Per pessimismo. Non cambierà mai niente, ci ripetiamo muti ad ogni prefiltraggio, e nessun uomo cambia un sistema da solo. Vero. Ma ci sono ventiduemila morti, lì fuori. Parenti nostri. Amici, amici di amici, gente casuale che poteva esserci amica. Contagiati nei call-center, nei magazzini, nei capannoni, nei piazzali di scarico dei corrieri espresso. Stavolta, nel loro nome, dovremmo riprenderci il posto che ci spetta. E zittire i critici dimostrando di non essere semplici spettatori passivi di un circo che, a suon di pretese oscene, si sta trasformando da penoso in offensivo. Adesso, come i bergamaschi – mai così in alto nella loro storia calcistica, mai così disperati nella loro storia civile – dovremmo dichiarare chiusi i giochi. Dire, a chiare lettere, che i ragazzetti viziati torneranno sui nostri campi da gioco quando ci andrà di rivederli giocare. Che, fino a quel momento, nessuno deve permettersi di sottovalutare che – prima ancora che tifosi di calcio – siamo popolo. E pretendere rispetto e silenzio. Anche a costo di far saltare il banco.


18/10/19

Onore ai diffidati


Mettiamola così: io sono un diffidato. A dicembre saranno cinque anni. E ne mancheranno due. Diffidato. Amministrativamente sottoposto, cioè, a misure restrittive che riguardano la mia squadra di calcio: non posso acquistare i biglietti per le partite in casa, non posso andare in trasferta, devo firmare due volte durante le partite, non posso seguire nessun sodalizio sportivo della mia città, devo stare a trecento metri dai calciatori che indossano la mia maglia. Anche per strada, quando non la indossano. Anche se non ne conosco uno. Non sono un condannato. Non ancora, almeno. I due processi riguardanti ciò che mi viene contestato sono ancora in corso. Potrei essere assolto, come tanti altri prima di me. Ma questo non cambierebbe niente: il daspo e la condanna penale sono due cose distinte e separate. In questi cinque anni – nonostante il daspo – sono stato avvicinato da diversi candidati che mi chiedevano il voto, dall’Agenzia delle Entrate che mi comunicava la rateizzazione degli importi dovuti, dagli addetti alla lettura dei contatori dell’acqua, del gas, della luce. Il daspo non mi ha salvato da quanto dovevo al cinema, nei ristoranti, in pizzeria, al teatro, al cinema. Non mi sono sentito particolarmente privilegiato, insomma, dalla mia condizione. La mia vita – fatta eccezione per la sofferenza di non poter seguire il Foggia – è trascorsa come quella di qualunque altra persona Dipendesse da me – ma è evidente che da me non dipende – non ci sarebbe nessuna squadra schierata sotto la curva. O, almeno, non ci sarebbe alcun saluto rituale. Perché i giocatori sono quello che sono: banderuole. E, nei loro confronti, si passa dalle stelle alla polvere nel breve volgere di mezza stagione. Dipendesse da me, al fischio finale, i ragazzi e i ragazzini potrebbero andare a giocare alla play station. Che nessun giocatore merita l’amore di una curva. Ma, fatta questa considerazione, mi ha fatto piacere vedere i nostri, mercoledì, fare il nostro nome dal campo. Non so se meritiamo di essere onorati, l’onore è tanta roba, ma – a parte questo – è stato bello. Perché, dovreste vederci, quando gioca il Foggia sembriamo dei personaggi di un Comics. Supereroi che sbirciano la partita in tv mentre cercano, tra spostamenti in auto e file allo sportello, di non farsi arrestare per mancata firma. È doloroso rinunciare al Foggia. Tanto. E se, come immagino, state pensando che ce la siamo cercata, vi rispondo che è vero. Ma che, altresì, sono certo che non abbiate assolutamente idea dei motivi per cui si viene daspati, oggi come oggi. Voi immaginate patti di sangue, cappucci neri nella notte, lame lunghe trenta centimetri, nemici seviziati alla ruota. E dite: “Siete la rovina del calcio”. Io vi rispondo che basta assai meno. L’accensione di una torcia, o di un fumogeno; un insulto politicamente scorretto; il sedersi in un seggiolino diverso da quello riportato sul biglietto. E fioccano anni di divieti. Come se fosse un luna park. Poi, di solito, scatta il processo. E, assai spesso, l’assoluzione. Ma, ripeto, questo non ha importanza. Io sono fiero delle mie diffide e credo di essermele meritate. Di sicuro le rivendico. Per cui, nessun piagnisteo. Torniamo ai fatti.

I giocatori del Foggia hanno cantato: “Onoriamo i diffidati” sotto la Nord. Qualcuno – maledizione a voi! – ha postato il video su una piattaforma social. La questura – problemi di traduzione – ha capito: “Rivogliamo i diffidati”. Ha annunciato provvedimenti. Ha aperto le indagini. L’Ansa ha battuto la notizia. E ci è mancato poco che non dicesse la sua pure El Pais. I teleschermi, per un’intera serata, si sono popolati di ingessati analisti, di antropologi sociali, di criminologi, di patologi forensi. Tutti hanno fatto la faccia triste e pensosa di chi soffre a parlare di certe cose. E, dalla responsabilità sociale dei calciatori al saluto militare della nazionale turca, ogni punto del possibile è stato toccato. Il Tg1 delle 20 ha sancito che “nella terra della quarta mafia nulla avviene per caso”. Io – come Homer con Willy il giardiniere – gli avrei pure creduto. Se non fosse che stava, stavano, parlando anche di me. Ma negare qui non avrebbe senso. Servirebbe solo ad alimentare un vittimismo che è distante da me quanto un accredito in sala stampa. Allora, vi invito a riflettere. Su quanto sia diventato insopportabile il moralismo di questo circo stupido e poco divertente. Sull’idea bislacca di un codice etico stringente che debba riguardare i luoghi del calcio. E possa tranquillamente essere ignorato altrove. Di una netiquette stile internet che debba scattare nella vita reale. Come se il campo del pallone dovesse divenire il regno dei sogni dei perbenisti. Come se costoro potessero imporre ai reclusi del biglietto ciò che all’esterno, per mancanza d’ascendente, non possono neppure sognarsi di proporre. Come se il fruitore di calcio, oltrepassati i tornelli, dovesse subire una modificazione genetica rispetto al cittadino che di solito è, quando veste i panni borghesi. E allora: sugli spalti tutti buoni, tutti green, tutti educati e cortesi come quaccheri. Tutti ordinati, a farsi inquadrare e diffidare come stronzi per comportamenti che sull’autobus non fanno scattare manco due pizze in faccia. Dagli stadi – pena la moltiplicazione esponenziale degli anni di estromissione – vengono, per decreto, banditi la discriminazione territoriale, l’insulto all’avversario, il buuu razzista, il sessismo e qualsiasi altra tendenza “politically correct” del momento. Come se lo stadio fosse una bolla. Una società obbligatoriamente perfetta depurata dall’esterno. La patria sospesa della correttezza formale. Personalmente, ritengo che si sia oltrepassato il limite della decenza. Sento parlare di daspo a vita inflitti direttamente dalla Fifa per non meglio specificati atteggiamenti discriminatori, di punti di penalizzazione e diffide ai tesserati del Foggia per un aver risposto al canto di una curva. Per un coro. Che gli aspiranti stregoni hanno immediatamente trasformato in una sorta di inno malavitoso all’impunità, un inchino al boss, un rito iniziatico. Perché, come diceva De Martino, il Sud è magia. E il brand del Sud magico, esoterico e malavitoso “acchiappa” sempre le anime pubblicamente belle che in privato coltivano il perverso culto del brivido. Fa turismo come Cogne, come la casa di Meredith, come Avetrana. Lo stadio deve trasformarsi in una residenza nobiliare, gli ultras devono diventarne i fantasmi. Ridicolo. Ridicoli i dirigenti dell’anticrimine, gli organizzatori del circo, i giornalisti, gli esperti. Ma, detto tra i denti, io di questo non posso che rallegrarmi. Sono felice del vostro rendervi ridicoli. Non solo per la gente che vi risponde quanto sia paradossale aprire un procedimento d’indagine per un coro ai diffidati in una delle città peggio messe d’Italia, ma soprattutto perché la vostra idea di addomesticare le curve è un insulto sanguinoso. E agli insulti si risponde. Che non limiterete mai la nostra libertà. Che non dovete neppure pensarci.

08/10/19

Cosmonautica


Il video del gol di Tortori è già un classico della cinematografia sportiva contemporanea.
Nella versione adrenalinica commentata da Antonio Di Donna, in quella – per certi versi ancor più soddisfacente – di Studio 100, coi commentatori tarantini che smorzano la voce e il fiato come dopo un pugno nello stomaco; nelle varianti amatoriali dalla Sud, dalla Nord, dalla gradinata, dalla tribuna, dal palazzo di viale Ofanto angolo “Il pneumatico”, dal drone di stanza sullo “Zaccheria”.
Quarto di recupero, rinvio del portiere, Taranto – in dieci da cinquanta minuti – che occupa militarmente il centrocampo in vista di una “spizzata” verso una punta, che non si sa mai, oppure semplicemente per tenere il pallone lontano dalla propria area; un rimpallo, un giocatore in maglia rossonera che stoppa e ne lancia un altro, in uno spazio sin lì inimmaginato; il difensore tarantino che si protende, inciampa, prova a reagire, cade; il nostro solo davanti al portiere, lo stadio che trattiene il fiato, la palla che sfila di lato ai guantoni, lo stadio che sbotta come uno sbuffo vulcanico. Da noi, in una stanza, nella stessa stanza di sempre, sembra Agodirin a Benevento.
Il gol nel recupero. In un derby di D e senza tifosi ospiti.
Probabilmente è questo il metro di giudizio di una passionalità mai sopita. Irriducibile e non perimetrabile. Il momento esatto in cui, smessi i panni del difensore della Mentalità, ti ritrovi nudo con quel che realmente provi. Senza infingimenti. Senza paludamenti. Senza stronzate.

Di mio, ci penso spesso. Fisso lo schermo che si carica di passaggi in orizzontare troppo indietro o troppo avanti rispetto al compagno di squadra, di falli laterali, di cross sbagliati, e provo a sovrapporre a quel che vedo quel che vedevo. Mi dico che è lo stesso rettangolo verde di Roccotelli, di Stimpfl, di List e di Marsan, la stessa curva dello striscione del Regime con le lettere squadrate ed arrotondate, lo stesso stadio delle gradinate nude, la stessa città. Gli anni cambiano le mode, le mode influenzano gli anni. Ma dietro quegli sponsor, quei seggiolini colorati, quegli effetti sonori, c’è ancora quel che era. Mi dico. E provo a convincermene. Anche quando è oggettivamente difficile pensare che quel che c’era possa essere sopravvissuto. Che un Tormen, un De Marco, un Englaro, un Seno, possano essere riproducibili nella scala discendente del tempo. A volte, lo ammetto, non ci vedo niente, vedo solo il presente. E resto deluso. Ma, altre volte, c’è una squadra in inferiorità numerica che sbaglia lo schema sul rinvio dal fondo, una carambola, un lancio ed un uomo in maglia rossonera solo davanti al portiere. In quell’attimo – l’attimo del soldato – il procedere insensato dei secondi, si blocca. Il tempo, lo sciocco tempo, si curva come un televisore degli anni Ottanta. Mentre Tortori, che non so ancora veramente chi sia, sta per tirare, il mio pensiero finisce risucchiato. Un’esperienza extracorporea. Una di quelle storie sui moribondi che rivedono la loro vita in un flash.

All’improvviso non c’è più stanza o gente che scatta in piedi. Sono in via Caldara, una traversa di Via Vittime Civili, all’ultimo piano, sul terrazzo da cui si vede il campo di San Michele. È domenica sera, siamo in visita ai parenti e sono orgoglioso d’essere stato fondamentale per il pari su rigore del Foggia a Perugia. Marzo del 1989. Non c’è stata ancora Hillsborough, non è ancora caduto il Muro. Io e i miei amici del quartiere abbiamo una radiolina. Ci vediamo dopo pranzo e diventiamo cosmonauti, alla ricerca di una frequenza, di un’onda radio sempre variabile, sempre imprecisata. Ci fondiamo con la voce di Peppino Baldassarre, rassicurante terminale d’ogni nostra emozione, ripetitore di un sentimento condiviso e totalizzante. Una partecipazione mai più ritrovata, parzialmente svanita con lo svanire dell’infanzia. Ho provato qualche grande gioia, dopo il rigore di Onofrio Barone che riagguanta il vantaggio perugino di Manfrin. Quattro o cinque promozioni, un paio di vittorie sulla Juventus, un paio di derby col Bari. E diversi dolori, più o meno lancinanti. Svariati play-off, il play-out di Ancona, Rivaldo. E curatele fallimentari, fallimenti, dilettantismo. Il mio cuore ha sempre retto fieramente, fieramente issato sul vessillo rossonero, di sconfitta in sconfitta. Vittorie comprese. Eppure, nonostante le feste e le tristezze, non ho più provato quella frenesia della radiolina. Del gruppo attorno alla saltellante frequenza con Foggia tutta intorno. La differenza tra l’infantilismo e l’infanzia. Non ho più provato l’orgoglio di quella visita ai parenti in cui sembrava che fossi lì lì per chiedere tributo ai grandi: il tributo che si deve a chi è stato determinante. Gli ultimi anni sono stati all’insegna di altre urgenze. Il gruppo è cambiato. È diventato anagraficamente adulto. Si è parlato di presenze, di incontri e di scontri, e poco di calciatori e di calcio giocato. I tempi dettano le priorità. Ma poi, al quarto di recupero, c’è un portiere che sbaglia un rinvio, un centrocampo affollato che sbaglia la “spizzata”, un lancio che sotterra il difensore ed uno sconosciuto con la maglia rossonera solo davanti all’estremo difensore del Taranto. C’è un gol, c’è un urlo. E, d’improvviso, svanisce la categoria e si trascina con sé l’età, il contegno ed ogni ragionamento serio sul nostro apparire di questi anni. E ritornano tutti, come una sfilata di rilucenti ricordi, ad incarnarsi in quella maglia che corre sotto la Nord. Ritorna Barbuti, ritorna Porro, ritorna Lunerti. Ritornano in vita i caduti di Sheffield. E pure qualche pezzo di Muro. Ritorna l’infanzia perduta. Urli come un matto, come se nulla avesse più importanza. E tutto ricomincia. Dal principio dei tempi.
Ammettiamolo: niente al mondo è più entusiasmante.

08/03/19

Il disfattismo di piazza



La prima volta che ho sentito qualcuno urlare: “Faccill!”, non avevo ancora compiuto dodici anni.
Era una calda domenica di primavera. Uno sfrontato Licata si stava imponendo 1-0 allo “Zaccheria”. E i suoi esterni continuavano senza sosta a fendere una linea difensiva – la nostra – più smarrita che lenta. Almeno tre volte i loro ragazzi si presentarono al tiro, soli davanti a Stefano Ciucci, il nostro portiere. E per almeno tre volte fallirono il colpo fatale.
In una di queste occasioni, di questi più o meno frettolosi ripiegamenti della nostra difesa, con i loro centrocampisti, le loro ali, a sembrare non solo più veloci, ma anche più giovani dei nostri, che la folla attorno a me parve sbandare dalla retta via della fede. E qualcuno – il primo, a memoria – gridò: “Faccill!”.

Il bello è che “faccill!” può significare tanto “Faglielo!” che “Faccelo!”.
E nella distanza tra la seconda e la prima plurale, c’è un mondo.
Non solo. “Faccill!” è tanto un imperativo quanto una preghiera. Un’invocazione pura e semplice.
La voce del tormentato che implora al boia: “Finiscimi!”. O: “Finiscili!”.
Decine di altre volte, in questi successivi trent’anni, ho visto ripartenze avversarie. Sullo zero a uno al quinto di recupero, in tre contro uno, alla disordinata ricerca di una vittoria che sfugge allo scoccare dei novanta regolamentari, col Gualdo Tadino come con la Juventus al “Delle Alpi”, in inferiorità numerica e al primo turno in Coppa Italia. E altrettante volte, da arnie talmente distanti e disambigue da non metterci la mano sul fuoco, ho sentito qualcuno urlarlo. Urlare: “Faccill!”.

Gridare, in sostanza, all’avversario di farla finita. Di troncare l’insopportabile esercizio della speranza. Di seppellire un colpo di pistola nel nostro dolente cuore di amanti respinti. È il segno della resa, non c’è dubbio. Io, personalmente, lo detesto. Perché detesto chi molla, chi chiede pietà, chi si dichiara vinto. Dalla sorte e dall’undici avversario. Ma è il paradigma di quel che siamo. E devo riconoscerlo. Come un tratto sporgente, montuoso, della nostra piana morfologia collettiva. Un rilievo, come una vena azzurra sull’avambraccio. Noi – e in questo noi c’è l’intera piazza XX settembre la sera del Venerdì santo, a prescindere da come la si pensi – siamo gente che non sopporta il dolore. Che preferisce morire pur di non soffrire. Umorali, lunatici, indolenti. Probabilmente incapaci di slanci stoici. “Meglio soffrire per poi gioire”, c’era scritto in Sud. Vero. Ma questo, come al solito nella storia umana, riguarda una minoranza. Foggia, di solito, non soffre con dignità. Foggia s’abbatte. Di colpo. Di botto. Come un albero o l’impero romano. Perché sente un condizionante peso sullo stomaco ma non vuol farsi vedere in lacrime. E allora spegne la tv. O cambia canale.

Prendete questi giorni. Il vertice alto di un mese febbrile, con tre finali e una sosta forzata da qui ad aprile. E l’incubo di una crepa che s’apre ogni settimana di più, fino a divenire sentore di voragine. Il fantasma della retrocessione, dopo due soli anni di cadetteria. Il presagio della retrocessione, quando quel giorno in piazza Cavour eravamo forse 60 mila, pronti a marciare sulla Serie A, sull’Europa, sull’universo-mondo. Prendete la sofferenza che proviamo, tutti. E l’impazienza che, da mesi, ci spinge a dire che la prossima è risolutiva. E poi la prossima diventa passato e la miccia s’è fatta più corta. E ci resta in mano. Prendete le paure di non limitarsi a retrocedere. Prendete il terrore di fallire. Di scomparire. Di ritornare a vivere la stagione all’inferno: le estati trascorse in corteo o sotto i portoni degli avvocati, mentre il resto del mondo “normale” va in cerca di sesso facile a Gran Canaria. Ed ecco che Foggia reagisce come sa: sbroccando. “Muoia Sansone con tutti i Filistei!”. “Magari fallissimo! Ricominciamo tutto da capo! E avast!”.

Ognuno di noi ha – in questi giorni – Whatsapp intasato di vocali da quattro, cinque o sei minuti, in cui perfetti sconosciuti svelano ad altri perfetti sconosciuti la verità sulla situazione societaria e sugli arcani invisibili agli occhi. Ognuno di noi ha saputo da voci senza volto che la proprietà ha intenzione di cedere a fine anno, che la squadra sarà consegnata al sindaco, che a giorni prendiamo i punti di penalizzazione, che l’anno prossimo – se tutto va bene – si riparte dalla Serie D. Qualcuno ha detto che i Sannella si son fatti prestare 350mila euro da Pio e Amedeo. Stamattina al chiosco della frutta davano per scontato il commissariamento. È il “faccill!”. Sotto sembianze che travalicano il campo da gioco, sotto le mentite spoglie del pourparler, Foggia – messa dinanzi alla prova della sofferenza, all’attesa dei novanta minuti di Lecce e poi agli altri – si ritrae, rifiuta il dolore che sa che proverà e invoca la mannaia. Facciamola finita!, dice. E spuntano i disfattisti, quelli che sanno perché hanno origliato e quelli che non sanno e inventano catastrofi. Così. Per il gusto di scatenare il panico, la reazione emotiva irrazionale, il suicidio di massa. Il disfattista è una voce che ti dice che è inutile battersi, è inutile lottare, tanto è tutto già scritto, tutto già deciso. Il disfattista prende in giro la tua credulità, si fa beffe del tuo coraggio. Ti vuole simile a lui. Ti vuole disfattista. Ti vuole portare ad urlare con lui: “Faccill!”.

È la grandezza e la miseria di questa piazza. CapacIl disfatte di soffiare alito d’inferno sul culo di quegli interpreti senza i piedi buoni, ma col cuore dalla parte giusta, e di trasformarli in idoli. E di sprofondare – e far sprofondare chiunque – in un dirupo di scetticismo, di dramma, di apocalisse. Voi che vivete a Trento, ad Asti, a Sondrio, immaginateci così: gente che mentre i governi entrano in crisi e crollano; mentre la Cina testa i suoi missili nel Mar di Taiwan; mentre l’OCSE rivede al ribasso i dati della crescita nazionale, ascolta vocali. E si sconforta. E per lo sconforto, vorrebbe che la Terra finisse, giù di botto, col Foggia calcio.

Postilla

Da foggiano, capisco. E una parte di me riesce persino filosoficamente ad ammettere certe cadute dell’animo. Ma non scherziamo proprio! La Serie D non è mai un nuovo inizio. E se a noi è sembrata bella e bellissima – ammesso che possa essere bella e bellissima una cosa seguita da poca gente – è stato perché ci è andata di culo. Perché un conto è incontrare il Sant’Antonio Abate una volta: ci sta la goliardia, il divertimento del viaggio, l’allegria immotivata. Un conto è andare a Sant’Antonio Abate tutti gli anni, per anni, con la stessa cadenza d’un fedele a Santa Rita. Non scherziamo. Che la stagione di D è stata foriera di decine di aneddoti divertentissimi: il trenino di Santa Maria Capua Vetere, l’acquazzone di Nardò, il Vomero. Indubbio. Ma quasi nessuno ricorda cosa abbiamo fatto a Battipaglia, d’inverno, trasferta vietata, in quella fase del campionato in cui sapevamo già che sarebbe salita l’Ischia. Non cercate su Wikipedia, rispondete al volo. Se ne avete il coraggio. E smettetela di infondere paura. Spalla a spalla, teniamoci la categoria sul campo. Che ci serve più dell’aeroporto. 



28/08/18

Perugia, l’anno della retrocessione


La prima di campionato non è la settima, la nona, la quattordicesima. E manco la prima di ritorno.
La prima di campionato vaporizza, dalla sua estiva anatomia in raffreddamento, le lisergiche spore di ogni nuovo principio. L’inizio. Che è settembre, l’inizio, ben più di quanto non lo sia mai stato gennaio. Settembre. Anche se i campionati cambiano nomi, importano sigle astruse, inventano piattaforme internet che costringono a cambiarsi il televisore in soggiorno, riducono gli organici e cominciano sempre prima. Ad agosto. Come la Ligue 1 o la Premier. La Coppa Italia, addirittura, a luglio. Ma poco importa, adesso. Le polemiche furenti dell’estate sono alle spalle come e peggio delle inzuppate vele veneziane a Lepanto. È tempo, adesso, di reiterare il rito. Di ritornare ad incorporarsi nell’infanzia ricordata. In quella immaginazione favolistica che, di suo, costituisce gran parte della tradizione alla quale, post-moderni, ci appelliamo. Il calcio dei pionieri è tutto qua, da un lembo all’altro del lobo frontale. È incastonato tra gli scaffali – profumati legni levigati a mo’ di gabinetto farmaceutico – accanto al mezzobusto di Paolo Valenti, alle note della sigla di Domenica sprint, alla voce roca di Sandro Ciotti, agli scudetti stilizzati, alla Pasta Barilla che accompagna la testa della lupa capitolina, all’olio Cuore del diavolo trasfigurato in lineari fiamme d’inferno. Con l’Ascoli che ha Pop 84. E l’Atalanta, Sit-in.
Ogni agognata nuova stagione nasce antica. E il paradosso è solo apparente. O, forse, non è neppure un paradosso fatto e finito. Siamo appassionati di antiquariato che sfioriscono quando chattano e riprendono colore alla vista di un’acquasantiera. È così che funziona. Senza il calcio che abbiamo amato, non riusciremmo ad amare il calcio. Ad ignorare la betoniera che, instancabilmente, asfalta ciò che ci è sempre piaciuto. A disinteressarci degli interessi che governano il mondo del pallone e sovrintendono, cinicamente, il nostro spiacevole ruolo di clienti. Una macchina elettronica stila i calendari in diretta streaming. E noialtri, foglio e penna, prendiamo appunti. Anche se ci sono da attendere i ricorsi, le richieste di ripescaggio, i punti di penalizzazione per frode; anche se le date indicate dall’elaboratore a primo acchito saranno inevitabilmente modificate quando verranno resi pubblici gli anticipi del venerdì, i posticipi del lunedì e gli orari del sabato. Per noi, ogni volta, è niente: è un segreto che pare solo nostro e che si racchiude nella dialettica tra un coso elettronico e la penna Bic.
Un elenco di sigle e di giorni. Una punes per fissarlo in bacheca. E si riparte.
Col filo dei ricordi finalmente libero di scalare le sue vette in verticale. Finalmente affrancato dai rovi della consapevolezza che aggredisce nei momenti di stasi (e non c’è stasi più statica dell’estate per chiedersi: “Chi me lo fa fare?”). In fuga, ancora finalmente, sui tetti delle città, a ritroso, verso il paese dell’infanzia. Quello con la piazza rettangolare, di 110x70 come lo “Zini”, regolamentare; con le porte dai supporti tondeggianti, come al “Comunale” di Torino quando Rush segnava allo Standad Liegi; coi quattro fari per illuminare la notte, le righe a terra, il sottopasso, la tribuna centrale coi seggiolini, le curve spioventi sull’area di rigore e la bandierina del calcio d’angolo. Col bar che dispensa ghiaccioli e Big babol, One-o-one e chewing-gum col Ponte di Brooklyn. E sui tavoli, il Guerin sportivo e l’album Panini.

Il paracadute azzurro col tricolore, come omaggio o vaticinio per la nazionale di Bearzot nella stagione che porta al Mundial. I baffi a manubrio del paracadutista, sagoma tondeggiante fuoriuscita – in 3D – da una commedia sexy. A ben guardarlo, sembra di intravedere il segno della serratura attorno agli occhi, a ricordare – a se stesso e a noi tutti – la linea sublime della coscia di Edwige che finisce per diventare il divino culo della Fenech. Oggi il paracadutista sarebbe un palestrato buzzurro con mille e mille followers su Instagram. Metterebbe in mostra i pettorali per pubblicizzare pillole che smorzano l’appetito. Ma nel settembre del 1981, il paracadutista che – prima di Foggia-Catania – atterra senza troppa grazia sul manto verde dello “Zaccheria”, lato curva Nord, per augurare buon campionato a tutti gli sportivi, è ancora un amico nostro. È ancora uno di noi. Uno di quelli che puoi trovare sul retro del Bar Mexico 70 a sbattere le carte napoletane sui tavoli di alluminio, accompagnando la giocata con un verso a metà tra Dioniso e Belzebù. È ancora un conoscente di famiglia, che beve Stock 84 o Vecchia Romagna dai bicchieri tozzi di vetro. E che quando ti incontra per strada ti chiede quanti anni hai e come vai a scuola. Esce coi pugni al cielo, felice dell’esito del lancio. E degli applausi che gli piombano addosso dalle gradinate. Oggi, il palestrato, avrebbe evitato di mostrarsi appagato. Avrebbe fatto un gesto alla telecamera, una cosa figa, massonica, per iniziati. Il suo saluto alle sue folle. E sarebbe uscito tronfio, senza tracce di felicità. Perché il paracadutista coi pettorali dietetici non è mai stato uno dei nostri, nel paese dell’infanzia. Altrimenti, avrebbe i segni della felicità come geometriche spirali di rughe sul viso. E l’impronta della serratura a ricordare, a se stesso e a noi tutti, la bellezza sublunare dell’anca della Fenech. 

C’era il Catania, di fronte, anche nel 1988. Un attesissimo 0-0 che frustrò il bisogno di una svolta che non si poteva più procrastinare. La stessa che accompagnava l’undici di un giovane Zeman, nell’anno che – lo avevamo stabilito – sarebbe stato il nostro. Il 5-0 al Cosenza del 1990. Poi furono storie di A. Con “San Siro” che sostituiva, sebbene temporaneamente, il “San Francesco”. E il “Simonetta Lamberti” che tendeva le costole e allargava il respiro di cemento fino a diventare l’Olimpico, nel giorno in cui eravamo almeno tremila ed un ragazzino biondo ci bucò, dritto per dritto, proprio sotto al settore. Francesco Totti. 4 settembre 1994.
Eppure, a memoria mia, direi Perugia. Il primo anno di cadetteria dopo la grande sbandata. Anticipo serale. Tele+. Le torce nel settore, il gol di Di Bari, il pullman sulla strada del ritorno, nella notte del Centro Italia. Un pari, all’ultima settimana di agosto che, nel mio ondeggiare tra i fiori ritrovati, diventa un tutt’uno con una tromba d’aria che spazza Piazza Battisti e si porta via la bella stagione, spalancando su di noi un autunno coi grandi numeri della Serie A assai ridimensionati da una squadra scialba e perennemente affaticata, dall’affanno congenito, che si salverà a stento. Poco importa se la tromba d’aria, cronologicamente parlando, andrebbe posizionata un anno prima. Che di quella formazione ricordo solo Kolyvanov e Bresciani. E che il 1995, in definitiva, non sia stato un anno memorabile. Se mi chiedete qual è stata la mia prima di campionato preferita, vi risponderò: “Perugia, l’anno della retrocessione”. Senza una reale spiegazione logica. Perché, in questa storia di amore alimentata dall’ostinazione, in questo rapporto dei sensi in cui godi solo se ignori mercimoni e tradimenti, in questo guardare Iemmello e pensare a Roccotelli, non può esserci logica.

In definitiva, noi siamo quelli che vivono della certezza che una nuova stagione farà sempre seguito ad una vecchia. E questa cosa, in tempi di precariato, conta assai più della pensione di cui non godremo o dei governi che si susseguono. Amare la prima di campionato è, in questo senso, non voler cedere al pessimismo. O all’età della ragione.     

13/04/17

Null'altro


Quando il Foggia salì in B Leonardo, mio padre, aveva la varicella.
Franco, mio zio, salì le scale di casa con una foga che imprimeva sconsiderata fretta ad ogni passo sui gradini. La varicella non era prevista. A quarant’anni non è mai prevista. Zio, da sempre entusiasta fino al rovesciamento del visibile, l’aveva interpretata come una punizione divina al cauto ottimismo di mio padre. Visitò il malato giusto il tempo di urlare, dalla porta della cameretta, che la Madonna l’aveva voluto. Poi si rifece le scale al contrario e tornò a farsi ingoiare dalla festa che ingoiava Foggia.
Quando, nove anni dopo, il Foggia retrocesse in C1, io non ero a Salerno. Non ricordo neppure più perché. In mezzo c’era stato Zeman, c’era stato Catuzzi, le quattro stagioni di serie A, la Uefa persa nello scontro diretto col Napoli. Bacchin. Di Canio sotto la Sud. C’erano state le stagioni della cadetteria percepita come declassamento. Anni di una disillusione cocente, ustionante, diffusa. Anni di ambizioni frustrate, di miraggi e disaffezioni. L’incantesimo spezzato tra una piazza asfissiante e la sua maglia rossonera. Quei tempi passati a ritenerci di passaggio che finivano per non finire più. Eravamo pochissimi a Benevento, la domenica delle Palme del 1995. Giocavamo in casa, formalmente. In campo neutro. Pochissimi erano anche i pescaresi, che in classifica volavano altissimi. Una telefonata a casa. Un sentimento di avulsa alterità rispetto ad una città che, inutile nasconderselo, si era offesa come una collegiale ed aveva voltato le spalle ai suoi ragazzi. Sette minuti di recupero lunghi come una rinascita. Vincemmo uno a zero, immeritatamente. E Burgnich si ripeté la settimana successiva, vincendo di misura a Brescia e vendicando uno 0-5 finito alle tre del mattino, con il faccia a faccia negli spogliatoi. Sabato di Pasqua. Come il prossimo. Come quello del 1989, quando Fabio Fratena uscì in barella dal “Pinto” di Caserta. Che i foggiani erano talmente tanti da spostare il settore ospiti. Ero in un locale che forse era un pub e che di sicuro oggi non esiste più. A via Ciampitti, accanto alla saletta di Savino e alla Pizzeria America. Non piansi. Prevalse l’incredulità per quella prova agonisticamente impeccabile quanto inutile di una Salernitana già promossa che voleva vederci sprofondati. Come i ricordi di un passato recente. Come Ciccio Baiano sotto la loro curva. È il calcio, mi ripetevo. La raggelante bellezza di uno sport impietoso ed ingiusto. Del resto, avevamo sciupato la salvezza la settimana prima, col Ravenna, allo “Zaccheria”. Vincevamo due a zero. Non piansi. E non lo feci neppure ad Ancona, nello spareggio play-out che ci affossò in C2. A noi. Che pensavamo che Marsala – raggiunta da una decina di eroi – fosse il letto dell’orrido. Le circolari dei martinesi in una mezza sera di lunedì. La neve col Brindisi. L’Andria che vince al 94’.

Questa settimana è una seduta di ipnosi. Un viaggio terrificante e cardiopatico, che salta battiti e pompa sangue alla rinfusa. All’indietro, random. Sembra impossibile. Che sia la stessa squadra. Quella che di lunedì andava a giocarsela a Sassari e quella che perdeva Baldini, che se ne andava a Mantova, mentre in maternità aspettavamo Antonio. Quella che ci portava a Venezia e quella di Roccotelli che batteva i calci d’angolo dalla destra della Nord. Quella di cui parlava nonno e quella che doveva fare la tournee in Cina, nell’estate del 1992. Quella che giocò in maglia verde al “Veneziani” di mercoledì, quella che battendo la Casertana fece un favore al Barletta, quella che schierava Petrescu alla conduzione di una trasmissione di Teleradioerre e quella che seguivamo in furgone. Quella del “Delle Alpi” e quella di Gualdo e Nardò. Le repliche di Telefoggia la domenica alle 21:30, il pellegrinaggio in via Gioberti quando venne giù la vecchia tribuna, la presentazione di Campilongo all’anfiteatro. Entrambi sostanzialmente declinabili al passato remoto. Questa settimana è un bilancio. È una constatazione che funge da avvertimento. Il Foggia ha macinato le nostre vite. E non c’è distanza che sia mai riuscita a metterci in salvo da questa sorta di astro perverso. Ora non stiamo più nella pelle. Ma se la pelle ci fosse ancora sarebbe dura e annerita dalla sovraesposizione alla luce fortissima e alle intemperie di questa stella folle. La stella del Sud, come recitava uno striscione in centro, ai tempi del Totip. Non c’è discontinuità, è questo che spaventa e toglie il fiato. Tra “all’attacco, brutti scimmioni” e la mentalità. Il Foggia è il nostro viaggio sentimentale. Null’altro, se si esclude la famiglia o gli occhi che portiamo in fronte, dura da tanto. Null’altro è più difficile da abbandonare. Null’altro sembra più scontato. Ce ne siamo resi conto il giorno in cui Samele vinceva in squadra il bronzo olimpico. Il giorno di quell’imprenditore foggiano che, da Milano, aveva salvato i rossoneri dall’inferno. Più ancora di Caraccio. A volte vorrei che il Foggia fosse uno di quei film alla “Big fish”, di quelli in cui i protagonisti sparpagliati sulla celluloide alla fine si incontrano tutti in un posto e si guardano e si conoscono da sempre. Il nostro Walhalla simile ad una celebrazione. La sforbiciata di Mounard a Cremona con il tuffo di Barbuti a Teramo, la rovesciata di Bozzi al “Ferraris” con Schio e Orati a Brindisi. Con Paolo List dal limite, al Barletta. Sotto l’incrocio. Con le banane in Sud. E Signori che dribbla Galli al “San Paolo” e corre sotto la Nord laziale, ammainando la stagione delle bandiere improbabili. Il tutto confuso, meraviglioso come un precipizio, come una scogliera battuta dai venti. C’è gente che quando canta “Il Foggia è tutto per me” non scherza affatto. Magari pecca di approssimazione, di ingenuità, ma il vero è dietro il velo delle parole. Perché non stiamo parlando di una squadra di calcio. Stiamo parlando della nostra storia collettiva. Del nostro essere comunità in una città che tale s’è sentita solo dinanzi alle sciagure. Oggi, a meno di quarantotto fottutissime ore dalla prima ordalia, la mia città non somiglia in nulla a quella di dieci mesi fa.  Non ci sono strade imbandierate, non ci sono festoni, tutti parlano di piedi per terra. Ma il fatto che non parlino d’altro dimostra quale fuoco provi a nascondersi sotto la cenere del tempo che non passa mai. Foggia, oggi, ripete che non abbiamo fatto ancora niente, ma è cautamente ottimista. Come Leonardo, prima di prendersi la varicella. E noialtri, entusiasti che ancora non scordano le lacrime di giugno, non possiamo fare altro che guardare fuori dalla finestra e tirare fuori un’idea che ci strappi all’immobilismo delle lancette. Tipo scrivere parole superflue, che suonino da ode e da preghiera laica. A quegli uomini che sabato dovranno scendere in campo sapendo cosa rappresentano. Per questa gente che solo quando li vede in campo si sente davvero una città.

Allora avanti, nel nome di tutto ciò che ci ha preceduti e lambiti. Di tutto ciò che è trascorso e, in virtù di questo, è al nostro fianco più del presente. Dell’urlo dei trentamila quando Bresciani sparò alle spalle di Peruzzi. E del silenzio sotto i portoni dei notai, fallimento dopo fallimento. Avanti, nel nome di quel che conta davvero, del nostro gioco di bambini che è diventato una faccenda dannatamente seria. Nel nome di chi ha amato quella maglia e di chi la amerà. Di chi non c’è e di chi non può. Avanti, cazzo, brutti scimmioni. Che Foggia è stanca di patire. 

Il Libro